In occasione dell’80° Anniversario della Liberazione, il Dipartimento di Studi Storici “Federico Chabod” dell’Università degli Studi di Milano ha organizzato un convegno sulla rinascita democratica e antifascista della città nel periodo storico 1945-1951. L’iniziativa, parte del progetto “Milano è Memoria” promosso dal Comune di Milano, si è svolta il 3 e 4 aprile 2025 nella sala Napoleonica di Palazzo Greppi. In apertura dei lavori vi sono stati i saluti istituzionali di Silvia Romani (Delegata ai rapporti con l’editoria e al Public Engagement dell’Università degli Studi di Milano), Anna Scavuzzo (Vicesindaco e Assessore all’Istruzione del Comune di Milano), Laura Mecella (Delegata del Dipartimento Studi Storici Federico Chabod), Paolo Corsini (Presidente dell’Istituto Nazionale Parri), Luigi Vergallo (Responsabile dell’area di ricerca Storia e Memoria di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli), Ferruccio Capelli (Direttore della Casa della Cultura) e Primo Minelli (Presidente provinciale ANPI).
I loro contributi hanno ricordato all’uditorio il cuore della ricorrenza di quest’anno: i luoghi della città di Milano, che fu la capitale della Resistenza e della ricostruzione, raccontano pezzi della nostra storia ed è nostro compito vivificare lo spirito e il senso di quel lascito. Il progetto “Milano è Memoria”, che ha visto la collaborazione di diverse istituzioni milanesi, nasce dalla necessità di una vigilanza democratica e culturale, tesa ad aumentare la partecipazione dei cittadini, giovani in primis, nel difficile contesto di crisi della democrazia contemporanea. La Resistenza, che all’epoca coinvolse tutte le classi sociali d’Italia, è un progetto in divenire, che esercita tuttora una forte influenza sulle associazioni culturali e sul tessuto urbano, modellando la città e i suoi abitanti.
Inoltre, Luca Gibillini, responsabile dell’unità Relazioni istituzionali con la città del gabinetto del Sindaco, ha riflettuto su come gli anni del dopoguerra abbiano comportato non solo la ricostruzione materiale ma soprattutto la rinascita della città e del Paese all’insegna dei valori della Resistenza di pace, libertà e democrazia, dando slancio alla società civile. Oggi, diventa sempre più necessario metterli in relazione con la viva memoria di quanto accaduto attraverso la ricerca storica, in modo che questo patrimonio collettivo continui ad animare il nostro presente e sia d’ispirazione nel progettare il futuro.
Sessione I – Politica
L’intervento d’apertura, dal titolo Tutto è da rifare, ricostruire, riconsacrare, è stato affidato a Nicola Del Corno che ha presentato la figura di Antonio Greppi, sindaco socialista di Milano dal 26 aprile 1945 al giugno 1951. Nato ad Angera nel 1894, sin dalla gioventù aveva aderito al socialismo e partecipato alla vita politica del paese natale, diventandone il sindaco. Durante il regime mantenne un basso profilo in Italia e solo dopo la caduta di Mussolini prese la via dell’esilio in Svizzera. Tornò in patria nel ’44 dopo l’uccisione del figlio Mario e qui si distinse nella lotta partigiana come comandante e commissario politico. A Liberazione avvenuta, il CLN gli affidò l’incarico di sindaco di Milano, poi riconfermato dalle elezioni del 7 aprile ’46. La sua amministrazione si caratterizzò per il contrasto alle violenze di strada – le vendette personali contro i fascisti erano frequenti – ma soprattutto per la ricostruzione della città martoriata dai bombardamenti alleati, con una particolare attenzione agli spazi culturali e artistici. Rivestì la carica dando una marcata impronta riformatrice alla sua azione e cercando di agire nell’interesse dell’intera cittadinanza. Alle elezioni del ’51 non venne riconfermato, perché vittima di equilibrismi politici dei partiti che componevano la giunta.
Prende poi la parola Giovanni Scirocco, che si è focalizzato sulle vicende dell’importante rivista milanese “Critica Sociale” rilanciata nel dopoguerra da Guido Mondolfo e Giuseppe Faravelli. La relazione ha preso in esame il carteggio di Faravelli, direttore della rivista, con diversi esponenti intellettuali e politici milanesi dell’epoca, da cui emerge l’intento del direttore di rivitalizzare la storica rivista di Turati come strumento di lotta politica. Vasta attenzione venne dedicata al dibattito sulle politiche industriali da adottare, con l’intervento di Roberto Tremelloni. La scissione di Palazzo Barberini, dell’11 gennaio ’47, venne favorita e facilitata dalle pagine del giornale: nei giorni precedenti Faravelli applicò forti pressioni su Saragat per realizzare uno statuto di partito costruito dal basso; egli stesso poi sovrintese all’organizzazione del neonato PSLI. Venne anche data voce al dibattito all’interno dell’Assemblea costituente sui diritti sindacali e sulle autonomie dei lavoratori. È proprio su quest’ultimo argomento che si concentrò la rivista “Critica Sociale”, presentando ai lettori l’ampia varietà di posizioni all’interno del socialismo democratico e riformista. Inoltre, non mancarono le esternazioni di rammarico per il fallito rinnovo di Greppi alla guida della giunta cittadina, fallimento considerato una sconfitta politica.
Marco Soresina tratta invece di integrazione e mobilitazione nella città liberata, ricostruendo la linea d’azione delle sinistre nei quartieri milanesi nel periodo tra il ‘46 e il ‘52. Parte dal fenomeno delle consulte popolari, nate per iniziativa delle sinistre social-comuniste, con lo scopo di sviluppare i quartieri popolari e stimolare i cittadini a trovare schemi di cooperazione e conflitto adatti alla nascente democrazia. Si optò per agire a livello di quartiere per meglio affrontare la grave situazione degli alloggi in città. La prima consulta si formò ad Affori nel ’46, su iniziativa dei militanti del PCI: la partecipazione iniziale ebbe buon successo e fu politicamente trasversale (ad eccezione della DC). Analoghe esperienze ci furono in altre città governate dalle forze di sinistra ma spesso prevalse il loro uso come strumenti di mobilitazione politica. Dal ’51, col mancato rinnovo di Greppi, le consulte vennero svuotate di influenza; ma che cosa non funzionò in questo progetto? Complessivamente la partecipazione fu modesta, mancò un reale coinvolgimento delle masse nelle questioni civiche e le azioni furono scarsamente incisive. A Roma invece restarono attive fino a tutti gli anni ’60 su iniziativa comunista. Lì si riuscì ad intercettare il movimento spontaneo dei quartieri contro il carovita e non fu inusuale il ricorso a forme di protesta radicali. In generale le consulte si rivelarono molto utili per la sensibilizzazione politica dei cittadini.
Quale sorte toccò ai fascisti? David Bernardini illustra quale fosse la percezione dei neofascisti nella Milano liberata, attraverso i loro periodici: “La Rivolta Ideale”, “Meridiano d’Italia” e “Lotta politica”. Ricorda poi che Milano era stata la città del fascio primigenio e del programma di San Sepolcro, nonché teatro dell’ultimo discorso pubblico di Mussolini, svoltosi al Teatro Lirico. Nei primi tempi dopo il 25 aprile, Milano e Roma diventarono presto un punto di raccolta dei fascisti che ritornavano dai campi di concentramento poiché erano più sicure della provincia; aleggiava però una palpabile atmosfera di ostilità verso di loro. I temi ricorrenti della memorialistica di Salò sono l’immagine di Milano in mano al terrore comunista e alle violenze degli antifascisti. Molti furono gli sforzi dedicati alla pacificazione nazionale, scagliandosi contro gli antifascisti che, secondo loro, impedivano una reale riconciliazione, ma era evidente il tentativo di denazionalizzare la Resistenza. L’MSI partecipò alle elezioni del 1948 con scarsi risultati e continuò a denunciare la mancanza di sicurezza in città e la presenza di stranieri (in questo caso ebrei) nelle vie del centro. Quale Milano si immaginavano i neofascisti dell’epoca? Il ritratto che emerge è sfuggente, certo prevaleva la componente nostalgica, con l’esaltazione di ordine e sicurezza un tempo assicurati dal regime. Ormai si sentivano estranei alla città che veniva percepita come abitata ma non più viva.
Per chiudere la mattinata l’intervento di Marco Cuzzi dal titolo: Alle urne! Le amministrative dell’aprile 1946. In quei mesi febbrili molti, come Giuseppe Romita, consideravano le elezioni una prova di organizzazione politica e organizzativa in vista del referendum del 2 giugno. Le votazioni amministrative di quell’anno coinvolsero circa nove milioni di uomini e ben dieci milioni di donne in tutta Italia. Alla corsa elettorale scesero in campo sei liste che però partivano da condizioni politiche e di radicamento sul territorio ben diverse. I protagonisti furono: i socialisti del PSIUP, i cattolici della DC, il PCI, il Fronte Democratico di PLI e PDL, l’Alleanza Repubblicana con PRI e PdA, la Lista Civica Esercenti; restarono esclusi i partiti degli ex-repubblichini. Ci furono molte difficoltà nel consegnare i certificati elettorali a causa delle distruzioni della guerra ma ciò non fece desistere i cittadini, in particolar modo le donne, dal partecipare in massa alle votazioni, segno della libertà riconquistata. La campagna elettorale fu portata avanti con determinazione in ogni spazio disponibile e si focalizzò su temi amministrativi, specie il ripristino delle abitazioni e dei servizi. La prima votazione dopo 25 anni vide trionfare il PSIUP, seguito dalla DC e dal PCI. Il consiglio comunale così formato si riunì il 14 maggio ‘46 al Castello Sforzesco ed elesse Greppi sindaco. Egli nel discorso d’apertura celebrò la vittoria della democrazia, la riconsacrazione alla libertà e alla democrazia di Milano.
Sessione II – Cultura
La seconda metà della giornata, dedicata all’ambito culturale nella Milano dell’immediato dopoguerra, è presieduta da Giulia Lami, professoressa di Storia dell’Europa orientale all’Università degli Studi di Milano.
La prima a prendere la parola è Daniela Saresella con un intervento sulla figura di Fernanda Wittgens e il suo ruolo, dopo la Resistenza, nella riorganizzazione museale cittadina. Nata nel 1903 a Milano, figlia di uno storico dell’antichità, si avvicinò già in gioventù al mondo dell’arte e della cultura milanese. Nel 1926 conobbe Mario Solmi, critico d’arte e ispettore a Brera, il quale la presentò a Ettore Modigliani, direttore della Pinacoteca. Nel gennaio 1940, nonostante i suoi ideali antifascisti, Fernanda venne promossa direttrice della Pinacoteca succedendo a Modigliani, allontanato già nel 1935 da Milano e poi espulso nel 1939 in quanto ebreo. Con l’inizio della guerra la Wittgens si adoperò nel mettere al sicuro le opere d’arte milanesi, spostandole in campagna o in luoghi sotterranei in città e dall’agosto 1943 iniziò la sua attività antifascista che la portò a 7 mesi di arresto. Dopo il 25 aprile si dedicò completamente alla ricostruzione culturale partecipando attivamente a diverse iniziative; gli sforzi maggiori furono però dedicati a Brera, della quale nel 1946 riottenne il ruolo di direttrice. Erano molti i problemi da affrontare ma nonostante la necessità di fondi per ricostruire inizialmente il governo non ne stanziò per la Pinacoteca, fu la Wittgens ad adoperarsi tramite contatti nazionali e internazionali per porre attenzione alla questione della ricostruzione di Brera, finalmente inaugurata nel giugno 1950. Per esemplificare l’importanza della Wittgens nella vita culturale milanese si può ricordare la sua volontà di restauro del Cenacolo, in opposizione con l’allora direttore dell’Istituto centrale di restauro. Di grande importanza fu anche la sua iniziativa “Fiori a Brera” del 1956 con la quale, concedendo il quadro “Danza degli amorini” alle vetrine della Rinascente, riuscì ad attirare alla Pinacoteca numeri mai visti di visitatori. Fernanda Wittgens morì nel 1957 all’età di 54 anni.
Il secondo intervento, di Irene Piazzoni, si concentra sul tema delle donne negli ambienti culturali milanesi descrivendo la figura di Maria Buonanno Schellembrid, direttrice della biblioteca Braidense dal 1942. Viene sottolineato come a metà ‘900, il settore bibliotecario, poco remunerativo e poco conforme a carriere ambiziose, fosse uno dei più aperti all’impiego di donne in posizioni di responsabilità. La Schellembrid apparteneva agli ambienti della Milano colta ma lontana dai centri della cultura di regime, si riconosceva più nella sua professione che nelle istituzioni fasciste. Arrivata alla Braidense durante la guerra, al contrario del suo predecessore si impegnò nella tutela del patrimonio bibliotecario, che rimase intatto alla fine del conflitto. Al centro del suo lavoro restò sempre l’esigenza pubblica tanto che il servizio continuò lasciando a disposizione il catalogo anche sotto i bombardamenti. Alla luce del suo impegno antifascista, la Schellembrid rimase alla direzione anche nel dopoguerra. Testimonianza di questo impegno fu anche l’acquisizione di libri o periodici editi all’estero o durante la Resistenza per sanare le lacune della censura fascista e per dare un forte impulso alla ricerca. Essenziale fu poi il recupero del fondo manzoniano, confluito in un Centro Manzoniano su volontà di Giovanni Gentile nell’ambito del tentativo del fascismo di appropriarsi dei classici della letteratura italiana. La celebrazione della restituzione avvenne nel 1951 in concomitanza con il riavvio dell’attività espositiva di Palazzo Reale.
Collegandosi a questo tema, Roberta Cesana rintraccia la presenza femminile nell’editoria milanese tra 1945 e 1951. In quegli anni le donne si impegnarono sia nel ruolo imprenditoriale che in quello autoriale, in alcuni casi partecipando anche alla progettazione aziendale della propria casa editrice. È da notare come quasi tutte le opere delle protagoniste del periodo fossero pubblicate al nord e soprattutto a Milano; alcune delle opere di maggior successo citate sono Nascita e morte della massaia di Paola Masino e La fiorentina di Fiora Volpini. Se da un lato non mancarono raccolte nate per contrastare la produzione commerciale dei grandi editori italiani, dall’altro non si deve dimenticare il duplice binario della narrativa femminile con autrici che si adattarono alla narrativa rosa o ai romanzi per l’infanzia. Non indifferente fu poi l’apporto delle traduttrici: è il caso di Marise Ferro o Lavinia Mazzucchetti, la quale collaborò con diverse grandi case editrici lavorando sull’opera di Thomas Mann. Infine, non mancarono donne che gestirono case editrici per conto dei coniugi o le diressero in proprio; il primo caso riguarda Renata Aldrovandi, moglie di Giulio Einaudi per il quale organizzò l’apertura della sede milanese, il secondo Ottavia Mellone, alla quale il marito, in difficoltà nel portare avanti l’impresa editoriale, aveva ceduto la direzione già nel 1929.
Sul tema letterario e sulla ricostruzione della letteratura nel dopoguerra si concentra anche Edoardo Esposito. Citando Elio Vittorini, il quale considerava la scrittura come “ricerca di libertà”, Esposito sottolinea l’esigenza dell’epoca di scoprire una letteratura nuova che superi il regime e la sua propaganda; ne è un esempio Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi, che pone la luce sulla questione meridionale, ignorata dal fascismo. Nel tentativo di illuminare quanto fu vissuto durante il fascismo non poterono mancare diverse testimonianze della Resistenza. Uomini e no di Vittorini fu una di quelle con maggiore successo: pubblicato immediatamente dopo la Liberazione, il libro ottenne tale notorietà da avere una seconda edizione già nell’ottobre dello stesso anno. Gli esempi riportati dal professor Esposito sono molti, a testimonianza di esperienze ed emozioni diverse in autori che avevano però in comune la stessa volontà, e finalmente possibilità, di esprimerli.
Ferruccio Capelli, direttore della Casa della Cultura, approfondisce il contesto politico e culturale che portò alla nascita di questo istituto. Figure di intellettuali come Antonio Banfi, Elio Vittorini ed Eugenio Curiel, ucciso pochi giorni prima della Liberazione, ebbero un ruolo fondamentale nel riformare la cultura milanese. Diverse furono le iniziative del momento; il “Politecnico”, rivista fondata da Vittorini, iniziò a pubblicare nel settembre 1945, la Casa della Cultura sarà inaugurata l’anno successivo da Ferruccio Parri. Ad amministrarla furono personaggi dell’ambiente culturale milanese laici e di sinistra, mancò però un apporto cattolico. L’impatto sulla città fu enorme con una grande varietà di iniziative, da incontri multimediali a lezioni pubbliche di psicoanalisi; l’impegno per un orizzonte culturale aperto e cosmopolita non venne mai meno. Questo clima non durò a lungo, sia a causa del conservatorismo politico che per le critiche provenienti dalla sinistra: nel 1947 il “Politecnico” dovette chiudere mentre la Casa della Cultura si trovò a fare i conti con uno sfratto reso esecutivo dal ministro Scelba. A risolvere la situazione fu la donazione di Grazia Curiel di un immobile di famiglia, a riorganizzare la Casa fu invece Rossana Rossanda. Nacque così una linea culturale che diede voce e slancio al progressismo milanese e che pose le premesse della permanenza della Casa della Cultura, attiva ancora oggi.
Altro settore in fermento a Milano dopo la Liberazione è, come descrive Raffaele De Berti, il cinema. Esemplari sono la collana di cinema della casa editrice Poligono e la nascita della Cineteca Italiana che riprendeva l’esperienza del collezionista privato Mario Ferrari. Fondata nel 1945 da figure quali Glauco Viazzi, Ugo Casiraghi e Aldo Buzzi, Poligono si pose in continuità con la breve esperienza della Cineteca Domus diretta dall’omonima casa editrice. Lo scopo delle cineteche era rendere il cinema un bene accessibile e di prima necessità per la popolazione. Nell’arco di pochi anni, però, la casa editrice dovette chiudere a causa del poco ritorno economico. Per sottolineare la connessione tra i movimenti intellettuali milanesi del periodo viene citato come nel 1978 Glauco Viazzi ritenesse che Poligono avrebbe potuto essere un modo per riaprire l’esperienza del “Politecnico” di Vittorini. Sebbene la centralità cinematografica di Milano terminò con la riapertura di Cinecittà, la nuova organizzazione culturale rimase a lungo presente nella vita pubblica con apporti costanti da tutte le figure della Milano intellettuale del dopoguerra.
L’ultimo intervento della prima giornata è proposto da Paolo Rusconi e Viviana Pozzoli e tratta dell’associazionismo artistico a Milano dopo il 25 aprile 1945. Viene premesso il carattere generalmente privatistico delle mostre d’arte moderna nel dopoguerra, spesso tenute da gallerie o artisti, spesso vicini alla sinistra italiana. Essendo collassato il Sindacato Fascista delle Belle Arti, si aprì la strada a miriadi di nuove associazioni e società legate alla produzione e diffusione artistica, in molti casi identificate da un sentimento di condivisione dell’arte nato dalla resistenza. Un ulteriore aspetto significativo è l’intreccio tra queste associazioni e le istanze assistenziali rivolte alla miseria scaturita dalla guerra. Molte erano inoltre le associazioni slegate dai canali principali della rivoluzione artistica contemporanea. Non mancavano infine le associazioni composte di tecnici e figure professionali specifiche quali gli artisti pubblicitari. Nel 1948 nacque l’Unione degli artisti, un tentativo di organizzare le innumerevoli sigle esistenti in un complesso unico che difendesse gli interessi dei propri membri; le proposte dell’Unione erano sia di natura pratica, come un calmiere dei prezzi per il materiale artistico, che di natura organizzativa, tentando di incentivare mostre pubbliche. Nonostante i vari tentativi, la possibilità di un fronte comune degli artisti, come ipotizzato nel dopoguerra, si rivelò inattuabile.
Sessione III – Società
La mattinata della seconda giornata di convegno, incentrata sulla società, è introdotta e moderata da Luigi Bruti Liberati con interventi dedicati alla società di Milano dopo il conflitto.
A trattare il tema del paesaggio di guerra all’indomani della Liberazione è Barbara Bracco dell’Università di Milano-Bicocca, premettendo come la storiografia abbia indagato meno il tema della distruzione in favore della ricostruzione. Una prima problematica riguarda la quantificazione della distruzione, distinguendo tra macerie e rovine, le une resti di materiale edilizio, le altre ciò che rimaneva degli edifici. Inoltre, trovare dati credibili sul quantitativo di distruzione è un lavoro complesso, soprattutto a causa della confusione dei dati raccolti. Ciò che è certo è che Milano fosse stata in buona parte distrutta, metà della città secondo Giuseppe de Finetti era da ricostruire, il sindaco Greppi parlò invece di milioni di metri cubi di macerie da smaltire. Tanto sono caotici i dati istituzionali quanto è esteso il patrimonio fotografico che ritrae le rovine della città, inferiore solo a Londra e Berlino. Per concludere, la relazione ha sottolineato come la ricostruzione storica della distruzione non sia solo parlare di vittime e rovine ma anche ricordare l’altissimo numero di sfollati che rimasero senza casa anche per anni dopo la fine della guerra e ricostruire il trauma legato alla “perdita delle cose”, da molti vissuta come un’umiliazione ulteriore sotto le bombe.
A parlare di solidarietà sociale è Edoardo Bressan dell’Università di Macerata. È una questione che, nel quadro della rinascita del Paese, arrivava sul piano politico con una visione socialista e una cristiano-sociale. Milano divenne dunque un laboratorio politico e sociale che ruotava attorno a diverse figure, tra cui Ezio Vigorelli, esponente socialista, presidente dell’ente comunale milanese di assistenza durante la ricostruzione e presidente della commissione parlamentare sulla miseria. Diverse furono le iniziative assistenziali di rivolte a vedove, reduci, deportati e partigiani ma anche per le famiglie di chi aveva combattuto contro gli Alleati e che nondimeno necessitavano di aiuti. A favorire la ricostruzione fu il quadro politico cittadino, molto meno lacerato rispetto a quello nazionale, che permetteva un approccio collaborativo da parte delle varie forze politiche nella gestione locale. Infine, a Milano nacquero anche diverse iniziative di volontariato per coprire gli spazi che lo stato non riusciva a raggiungere.
Claudia Baldoli introduce il proprio intervento sottolineando il grande divario tra i progetti culturali d’élite e la realtà della vita della popolazione milanese. Temi fondamentali non solo a Milano ma anche in provincia tra 1945 e 1947 sono criminalità, scioperi e dibattito sulla sorte dei fascisti. Città buie, diffusione di armi, assuefazione alla violenza e soprattutto la miseria, resero i furti un’esperienza quotidiana quasi sempre legata all’ottenimento di beni di prima necessità. Non mancarono inoltre un gran numero di scioperi e di manifestazioni, dovuti non solo alla carenza di cibo, che non permetteva un sostentamento adeguato al lavoro, ma anche alla mancanza di alloggi per le innumerevoli famiglie le cui abitazioni erano rimaste vittime dei bombardamenti. A conclusione dell’intervento si pone attenzione sul desiderio di giustizia nei confronti dei fascisti e sul timore di Comune e prefettura per la sete di vendette che avrebbe potuto essere riaccesa dalla loro Liberazione dopo il giugno 1946.
L’intervento successivo, di Giorgio Bigatti dell’Università Bocconi, si concentra su fabbrica e lavoro indicando come un’analisi di queste tematiche richieda una conoscenza del mondo industriale di Milano tra le due guerre. La complessità economica milanese rifletteva la complessità demografica della città e la centralità delle industrie fu ulteriormente accentuata dalla guerra e dall’economia che ne conseguì. I grandi complessi industriali vennero favoriti dall’ingresso nel conflitto ai danni di piccola e media impresa, anche gli organici furono influenzati dalla guerra con una classe lavoratrice composta di vecchi operai e di ragazzi molto giovani; uno su quattro dei nuovi addetti all’industria aveva meno di 20 anni. Con la Liberazione i rapporti di forza nelle fabbriche si capovolgono; le lotte operaie ottennero nuova linfa vitale ai danni dei grandi industriali, messi sotto accusa dopo la collaborazione con il fascismo. Ricostruire significava anche rinnovare le imprese che negli anni immediatamente successivi al fascismo affrontavano tutte problematiche simili: poca liquidità, incertezza sul futuro, mancanza di ordine. Ad avviare sulla strada del rinnovamento sarà una politica commerciale sempre più liberista che, viene notato nella conclusione, influenzò condizioni di lavoro e tensioni politiche in Italia.
Il contributo della chiesa ambrosiana alla ricostruzione è, come racconta Giorgio Del Zanna dell’Università Cattolica di Milano, incarnato dal suo arcivescovo, Ildefonso Schuster. Dopo l’assistenza alla popolazione e un contributo non indifferente alla Resistenza la chiesa milanese nella figura di Schuster si impegnò per pacificare gli animi. Schuster era lontano dal mondo politico ma vicino alla necessità di ricostruire il tessuto urbano, carità e assistenza furono rivolte a tutti senza discriminazioni. Schuster dovette naturalmente confrontarsi con le posizioni comuniste: ostile al comunismo per motivazioni più pastorali che politiche lo ritenne sempre meno pericoloso rispetto al permanere delle violenze, alle epurazioni e alla larga diffusione della miseria. Il contributo di Schuster alla ricostruzione non fu solo materiale, con la sottoscrizione di un fondo per la costruzione di nuovi alloggi; l’impegno del vescovo milanese fu anche rivolto alla ricostruzione democratica. Nel 1946 inviterò i fedeli al voto, non in chiave difensiva contro le sinistre, bensì per affermare la centralità cattolica nella rinata vita pubblica italiana.
Il pluralismo religioso milanese rinasce dopo la Liberazione? Con questa domanda Paolo Zanini introduce il proprio intervento sottolineando che, se è vero che le comunità di minoranza tornarono ad abitare Milano, esse non riuscirono ad essere in sinergia con la città come avveniva prima del fascismo. Sia la comunità ebraica che quelle protestanti erano presenti a Milano già dall’epoca liberale; gli uni e gli altri erano inseriti in vaste reti internazionali ed ebbero a soffrire del nazionalismo dilagante in epoca fascista; la loro situazione non migliorò con il riavvicinamento tra Stato e Chiesa che li condannò alla completa emarginazione. Con la Liberazione cessarono le persecuzioni verso la comunità ebraica e la demografia ebraica in città si rafforzò in seguito alla prima guerra arabo-israeliana. A questo aumento demografico rispose una maggiore compattezza interna e un conseguente distacco dalla vita pubblica cittadina. Le comunità protestanti avevano avuto vita più facile sotto il fascismo ma si trovarono in difficoltà dopo la Liberazione con la Chiesa che tentò di coinvolgere lo Stato in ottica antiprotestante suggerendo legami con la massoneria e con il comunismo, smentiti però dalla prefettura. Rimediare ai danni del fascismo fu dunque un processo lento, dovuto al clima confessionale che stava nascendo nel Paese, alle strutture rigide delle minoranze religiose e al rifiuto verso di esse da parte della Chiesa.
L’ultimo intervento della mattinata è quello di Enrico Landoni dell’Università eCampus, incentrato sul ruolo dello sport nella rinascita sociale di Milano. Immediatamente dopo il conflitto, l’attenzione agli sport poteva apparire ad alcuni come un retaggio del regime, secondo altri invece, l’attività sportiva sarebbe stata un elemento fondamentale nella ripresa della città. Fautore di questa seconda posizione fu il sindaco Greppi che favorì il rilancio di diverse manifestazioni sportive: calcio, ciclismo e nuoto furono solo alcune delle discipline che ritornarono in auge dai tempi bui della guerra. Greppi era convinto che fosse compito dell’amministrazione il ripristino degli impianti distrutti e abbandonati durante lo scontro bellico. Per ulteriormente radicare lo sport nel cuore della società, la riorganizzazione delle varie discipline fu affidata a ciascuna ad un partito. La centralità sportiva di Milano dovette però confrontarsi con la centralità istituzionale di Roma, sede del CONI; dopo un breve periodo, il contrasto tra CONI e CONI Alta Italia, nato subito dopo la guerra, venne normalizzato con la sola permanenza dell’organismo romano. A conclusione dell’intervento viene descritto l’iter legale e materiale che dal 1949 al 1956 porterà alla rinascita dello stadio di San Siro da lì a poco soprannominato “Scala del calcio”.
Sessione IV – Istruzione, Urbanistica e Amministrazione
La quarta e ultima parte del convegno viene aperta da Antonino De Francesco che descrive il percorso dell’Università degli Studi nella ricostruzione. L’ateneo di Milano nato sotto il regime fascista, da esso venne lautamente finanziato e sostenuto, con lo scopo di formare una classe dirigente lontana dal liberalismo prebellico. La profonda adesione al regime spinse il governo Badoglio, nel ’43, a designare un rettore ineccepibile: il giurista Cambian. Già due settimane dopo, gli succedette Giuseppe Menotti De Francesco che, durante l’RSI, accolse chi tra i professori non poteva raggiungere le sedi d’appartenenza e chi sfuggiva all’epurazione degli Alleati. Alla Liberazione venne epurato ma presto fu riabilitato e vinse le elezioni del ’48, rimanendo rettore fino al ’60. Nel dopoguerra il corpo accademico crebbe, ma il nucleo di potere nel senato accademico rimase tale fino agli anni ’60. È interessante osservare come l’aumento e il calo delle iscrizioni durante il regime e la guerra fossero legati all’incremento di iscrizioni nei licei. La crescita della città portò a un aumento delle famiglie che investivano nell’istruzione di figlie e figli, interrotto dallo scoppio delle ostilità della Seconda guerra mondiale. Le donne offrirono in quegli anni il massimo incremento di iscrizioni; la maggior parte di loro si laureò in lettere e filosofia, passo necessario per diventare maestre e insegnanti di scuola media superiore, rivelando il ruolo ancillare loro riservato nella società dell’epoca.
Gianfranco Pertot del Politecnico di Milano cambia argomento dedicandosi al ruolo di architetti e ingegneri nella ricostruzione di Milano. Nel ’44 i pesanti bombardamenti inglesi con bombe incendiarie sfigurarono e devastarono la città; per la ricostruzione, il CLN sospese il piano regolatore Albertini del ’34, che consisteva in una ragnatela di vie tra cui costruire, basato sul principio delle convenzioni stipulate tra comune e privati. Gli architetti e gli ingegneri coinvolti nella commissione per il Piano Regolatore Generale (PRG) di Milano erano accomunati dall’adesione al modernismo e al razionalismo, essi aspiravano a ricoprire un ruolo di primo piano nella ricostruzione. Nell’affrontare il progetto divenne però evidente lo iato tra ciò che si immaginavano nel periodo prebellico, come il piano Città Orizzontale e Milano Verde, e la realtà con la quale si trovarono a lavorare dal 1946. Il PRG ebbe una gestazione travagliata, rimanendo a lungo bloccato a causa della lentezza del necessario censimento urbanistico, ma la ricostruzione proseguì spedita grazie a speciali deroghe. Il PRG entrò in vigore solamente nel ‘53, ma la città era ormai profondamente cambiata e così si dovette realizzare un nuovo censimento. Vestigia del progetto razionalista della città-regione sono ancora oggi presenti: sono la sopraelevata nel quartiere Corvetto e il cavalcavia stradale che sorpassa i binari della stazione Garibaldi.
Emanuele Edallo, dell’Università eCampus, evidenzia come il PRG fu un difficile compromesso tra utopia e realtà. Nella commissione per la stesura vi erano differenti posizioni su come gestire l’assetto urbanistico di Milano, ma le molteplici distruzioni della città ponevano l’urgente questione della ricostruzione delle abitazioni. La sostituzione del piano Albertini voleva essere anche una testimonianza del rinnovamento politico e culturale della città; le influenze più rilevanti arrivarono dal piano Secchi, dal piano degli Architetti Riuniti (AR) e da quello di Cesare Chiodi. Nel novembre del ’45, la giunta bandì un concorso di idee aperto a tutti. Solo dopo la riconferma di Greppi, si avviarono gli studi per il PRG e ad esso seguì il piano di ricostruzione che, a causa delle trasformazioni subite dalla città, venne completato solo il 4 maggio ’53. Restarono alcune problematiche legate alle norme di salvaguardia e all’impossibilità di realizzare un nuovo centro direzionale, a causa dello spostamento previsto della stazione delle Varesine. Le forti pressioni per la ricostruzione, così come l’impossibilità giuridica di modificare le convenzioni, le lungaggini burocratiche e lo scollamento tra urbanisti e realtà protrassero il termine dei lavori al ‘59. In conclusione, Edallo evidenzia le tre possibili occasioni perdute: l’idea di partecipazione collettiva a dispetto delle difficoltà di attuazione, la coniugazione dell’assetto urbano con le esigenze moderne della città, il rapporto con il verde e il mondo rurale.
Un’altra trasformazione subita dalla città riguarda l’odonomastica, attraverso la quale si è riconsacrato lo spazio urbano nel dopoguerra. Col suo intervento, Massimo Baioni dell’Università degli Studi di Milano sottolinea come nelle fasi di transizione gli spazi cittadini siano i più esposti a sentimenti iconoclasti: un chiaro esempio è la Rivoluzione francese che fece di strade e piazze lo strumento per le politiche della memoria. Tra il ‘43 e il ‘45 si sono succedute tre ondate di cambiamento, ma è la Liberazione che ha lasciato il segno più profondo sull’ambiente urbano. Il sindaco Greppi volle mostrare a livello simbolico il ritorno alla libertà e alla democrazia, dando slancio alle rivendicazioni di memoria e favorendo il riassorbimento dei traumi bellici. Egli cercò anche di contenere l’ondata di anarchia odonomastica da parte della popolazione tutelando i toponimi della tradizione cittadina e l’organizzazione dei servizi. Una prima riorganizzazione della mappa cittadina fu compiuta già nell’estate 1945 eliminando i nomi maggiormente legati al fascismo, a Salò e all’esperienza coloniale. Si ripristinarono le antiche denominazioni, ma si decise anche di perimetrare città con la memoria antifascista, per purificare e riconsacrare lo spazio urbano. La contesa su via Francesco Crispi, tra chi desiderava la rimozione e chi invece voleva celebrarne il ruolo avuto nel Risorgimento, mostra quanto ancora nel dopoguerra pesasse la memoria del Risorgimento e del regime fascista, ma anche le forti pressioni per celebrare la libertà e la democrazia ritrovate.
Negli ultimi due interventi si trattano temi amministrativi. Pompeo Leonardo D’Alessandro mette in luce la vicenda dei consigli di gestione all’interno del progetto di una democrazia industriale, sottolineando come la lotta di liberazione fu anche un’esperienza di governo e di elaborazione politico-culturale. Istituiti per la prima volta nel febbraio ’44, durante il regime di Salò, il modello venne poi recepito nel ’45 da Emilio Sereni per i consigli di gestione delle fabbriche. In guerra le fabbriche milanesi assunsero un’inedita centralità agendo da punto di sopravvivenza civile e quando il 25 aprile il CLN assunse poteri di governo, il dibattito sui consigli di gestione si intensificò, coinvolgendo i politici ma anche tecnici e operai; per il Movimento operaio i consigli dovevano assumere una funzione di dirigenza nazionale. A Milano si formarono numerosi comitati economici e tecnici per la ricostruzione, si svolsero numerosi convegni sui consigli di gestione, ma mancò il riconoscimento giuridico da parte degli Alleati e del governo italiano. L’obiettivo divenne allora la valorizzazione del contributo concreto per fabbrica e società, così prevalse la fisionomia parasindacale dei consigli come rappresentanti dei lavoratori ed ebbero scarsa incisività sia sul piano economico che politico-sociale. Dal ‘48 si moltiplicarono le riorganizzazioni industriali e i licenziamenti, con conseguente indebolimento dei consigli di gestione di fabbrica e il loro progressivo abbandono.
A chiusura della giornata e del convegno, Mauro Elli ritrae il profilo di Ercole Bottani e la vicenda del comitato consultivo per l’energia elettrica dell’Italia settentrionale negli anni della ricostruzione. Bottani, laureato in ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Milano nel ’22, lavorò in uno studio di consulenza e progettazione; diventò così un esperto capace, dalla visione modernista e politicamente attivo. Le ingenti distruzioni alla rete elettrica di distribuzione e produzione subite dall’Italia indussero il governo italiano a imporre drastiche riduzioni ai consumi e il divieto di prelievi elettrici. Le crisi si succedettero fino alla primavera del ‘50. Milano fu in quegli anni il vero centro nevralgico del consumo e della gestione del sistema elettrico nell’Italia del nord. Infatti, nel gennaio ’46, Bottani fu nominato commissario straordinario. Gestì l’emergenza attraverso le sospensioni prefissate delle erogazioni e i prelievi limitati, con lo scopo di evitare l’abbassamento della tensione del sistema e prevenire lo svuotamento degli invasi alpini. Bottani dovette mediare tra gli interessi contrastanti di aziende, il ministero dei lavori pubblici e le esigenze tecniche del sistema elettrico. Tale equilibrismo fece di lui il bersaglio della satira e delle rimostranze di gruppi di operai, reduci e ingegneri, esausti dal persistere della magra. Vi fu anche un più ampio dispregio del trust elettrico, che alimentò un forte risentimento verso Roma e gli operatori del settore.
Nicolò Gilardi
Tommaso Ferrari